Apatia di L.V.
Questo è il mood che si respira in carcere. Apatia che è il risultato della
noia, della lentezza con cui passa il tempo, dalla mancanza di cose da fare,
del degrado che si ha tutt’attorno e dal quale non è umanamente possibile
sottrarsi.
Nella casa circondariale di Monza l’apatia va per la maggiore, complici una struttura in condizioni ancora disperate, la carenza di attività che con le restrizioni si sono ulteriormente rarefatte. L’unica alternativa, rispetto a questo vuoto che si prova in carcere, capace di sollevare la mente e lo spirito più del carcere stesso, è il lavoro. Lavoro interno, naturalmente, nelle tante attività che sono necessarie per il funzionamento di ciascun istituto, che diventa vitale per far passare la giornata e per guadagnare qualche soldo. Se nonché anche il lavoro in carcere è un lusso: nel senso che, banalmente, soldi per lavorare tutti non ce ne sono e dunque le persone sono costrette a lavorare a rotazione. Sembra un contrappasso: quelli che, secondo la vulgata, fuori “non hanno voluto lavorare” qua non soltanto ambiscono al lavoro ma se lo litigano, cercando di passarsi avanti nei turni l’uno con l’altro e adducendo, a sostegno della propria necessità, di voler avere in tasca il denaro per comprare le sigarette e qualche extra al sopravvitto.
Qualcuno, di fuori, quando gli ho raccontato questa faccenda, ha storto la bocca: come sarebbe a dire, dice, i detenuti vengono pagati per lavorare? Non dovrebbero farlo gratis, visto che si trovano in prigione per le loro colpe? È grande la propensione delle persone ad affibbiare pene ulteriori a chi già deve scontarne, come se essere semplicemente reclusi non fosse sufficiente, come se ci volesse sempre qualcosa in più per appagare il senso di rivalsa che in molti provano contro chi ha violato la legge. Evidentemente non esistono ragioni plausibili per cui un individuo privato della libertà dovrebbe lavorare senza essere pagato, né altrettanto, questo sarebbe “educativo” per persone che hanno l’obiettivo di riconquistare una vita ordinaria, caratterizzata proprio dal meccanismo per cui ciascuno deve guadagnarsi da vivere in modo onesto. Ma anche per il lavoro, mancano le risorse: la declinazione pratica di quella che astrattamente dovrebbe essere una “nuova vita” fuori dal carcere, viene attivata ad intermittenza, lasciando spazio a pause di mesi durante i quali procurarsi un sacchetto di tabacco, mezzo chilo di pasta o un pacco di merendine torna a essere un problema. Identico a quello che parecchie tra quelle persone hanno dovuto affrontare quando erano fuori e in molti casi hanno risolto adottando i comportamenti che le hanno portato là dentro.
L’ articolo 20 dell’ordinamento
penitenziario dispone che negli istituti penitenziari e nelle strutture ove
siano eseguite misure privative della libertà devono essere favorite in ogni
modo la destinazione dei detenuti e degli internati al lavoro e la loro
partecipazione a corsi di formazione professionali, e aggiunge che “il lavoro
penitenziario non ha carattere afflittivo ed è remunerato”.
- da Oltre i Confini Magazine Direttore editoriale e responsabile Antonetta Carrabs
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