I detenuti intervistano la direttrice Cosima Buccoliero a cura di E.N.





“La gestione di un carcere - scrive Cosima Buccoliero nel libro "Senza sbarre", Einaudi - si impregna del carattere, della personalità di chi è alla guida. Esistono tuttavia condizioni, caratteristiche che si strutturano e diventano identificanti indipendentemente [...] e ciò succede quando dietro ci sono un progetto, un'idea precisa e una visione [...]. A Bollate questo è accaduto. “


L'11 gennaio del 2021 per la dott.ssa Buccoliero fu l'ultimo giorno a Bollate come direttrice dopo due anni. In quello stesso carcere aveva in precedenza, per molti anni, lavorato insieme a Lucia Castellano. Ha trascorso poi un anno e mezzo fuori dalla Lombardia, come direttrice del penitenziario di Torino, prima di rientrare a Milano con l'incarico di responsabile del minorile "Beccaria". Da maggio 2023 è direttrice della casa circondariale di Monza.

 

Come le è venuto in mente di fare questo mestiere?

Ho preso la laurea con una tesi in diritto civile, iniziai quindi a fare pratica legale, volevo entrare in magistratura, ma in realtà non sapevo ancora bene cosa fare? Un grande costituzionalista professore di diritto, Valerio Onida, ha scritto: "il diritto si deve fare carne e sangue". Ecco, quel motto l'ho trovato riverberato nel carcere, più per caso che per scelta deliberata, diciamo. Vidi il bando del ministero per la carriera direttiva, ho provato ed è andata. Iniziai a Cagliari. E devo dire che nel mondo carcerario ho trovato il contesto ideale per calare nel concreto la norma giuridica che vedevo così arida.

 

Lei ha vissuto dall'interno quello che è stato spesso definito un "modello di carcere": è stata appunto vicedirettore e poi direttore a Bollate. Cosa ha reso possibile il "modello Bollate"? Coincidenza di persone giuste nel posto giusto al momento giusto?

Il modello carcere è dato dal tipo di utenza, cioè dalle persone che costituiscono la popolazione reclusa, in misura determinante; anche ovviamente gli operatori di polizia, dell'area educativa, i diversi soggetti che entrano per svolgere le varie funzioni, tutti hanno un ruolo nel connotare il modello carcerario, non solo da una parte quindi ma anche dall'altra; i detenuti, in cui credo, sono il motore del vero cambiamento perché sono coloro che il carcere lo abitano e lo vivono 24 ore su 24. Se si riesce a incidere sul modo di comportarsi, sul vivere la privazione della libertà come un'opportunità e non solo afflizione, c'è spazio per far in modo che il carcere non sia segregazione. Queste porte devono aprirsi, al momento giusto, per dare una possibilità. Certamente le persone "da questa parte", cioè dal lato dell'amministrazione penitenziaria, della polizia penitenziaria, sono pure determinanti, ma il cambiamento si fa insieme, aderendo al e attuando il "modello" che è poi diverso da luogo a luogo: Monza è un penitenziario ibrido, parte circondariale e parte reclusione, con detenuti più spesso con pene brevi, va da sé che i percorsi possibili siano dunque meno variegati epperò c'è la possibilità e il dovere di dare risposte a tutti nella prospettiva del reinserimento dopo il fine pena. In questo, per esempio, esiste una grande differenza e quindi differenti opzioni con i penitenziari di Opera e di Bollate, dove invece c'è una popolazione detenuta con pene lunghe, ciò permette di pensare e attuare percorsi di lavoro e formazione più strutturati e volti alla reale formazione lavorativa in previsione di una effettiva maggiore spendibilità futura per il detenuto una volta libero.

 

L'esempio - citato con enfatica efficacia all'inizio del suo libro "Senza sbarre" - degli orologi che non funzionano è paradigmatico del sistema che funziona o non funziona: se ci sono "cose" che vengono messe a disposizione, esse devono essere garantite funzionanti; altrimenti non hanno senso. Così pure i diritti e i doveri: senza restrizioni, il carcere non si dà; ma senza diritti, il carcere diventa "lager".

La metafora degli orologi (ma potrebbe essere anche l'accessibilità ai servizi, quali la biblioteca, i corsi scolastici, le opportunità lavorative, le attività ricreative, i percorsi formativi, etc.) che non funzionano o funzionano male, coglie in nuce il dramma della vita in prigione (per tutti quelli che a vario titolo ne sono cointeressati), in un luogo in cui il tempo scorre a scansioni fisse e uniforma la vita di tutti. Il tempo, gli orologi sono un memo continuo in un luogo in cui il tempo esiste solo se viene riempito di contenuti, senza i quali invece sarebbe attesa.

 

In un'intervista alla stampa in occasione del suo insediamento come nuovo direttore a Monza, lei poneva l'accento sul tema del lavoro come un asse portante del suo mandato.

Beh, è chiaro che il lavoro, cioè la possibilità di avere scelte, opzioni molteplici e vantaggiose sul tavolo - che sia il lavoro carcerario intra moenia o il lavoro esterno - è un aspetto fondamentale. Il carcere è soprattutto privazione, non solo perdita della libertà personale. Privazione totale. La privazione della possibilità di lavorare è uno dei fattori più controproducenti, sia a livello psicologico che a livello pratico, come è chiaro. E' importante dunque cercare di aprire le porte a chi chiede di operare in carcere, per offrire opportunità lavorative a quanti più detenuti possibile, inserendo attività lavorative che siano formanti e professionalizzanti. Quello che serve infatti è sì che i detenuti possano accedere a posti di lavoro e a situazioni migliorative, ma anche e soprattutto che possano poi mettere a frutto fuori le competenze acquisite o perfezionate dentro.

 

Rieducare per responsabilizzare. Lo abbiamo scritto anche noi in un articolo in cui invitavamo gli imprenditori brianzoli a farsi avanti e cercare lavoratori tra i tanti carcerati che hanno talento, disponibilità, voglia di mettersi in gioco, bisogno di lavoro, professionalità da offrire.

Sì, molte imprese arrivano, si propongono, certo. E' però talvolta difficile concretizzare. Io sono sempre disponibile e aperta a favorire ogni soluzione fattibile che riguardi sia gli spazi interni al carcere sia ovviamente la concessione di benefici, come l'art. 21 della legge sull'Ordinamento penitenziario, che consentono di far lavorare i detenuti all'esterno presso ditte, cooperative o aziende. Per quest'anno, il 2024, ho cercato di mettere in cantiere opzioni più diversificate e più numerose anche per quel che riguarda il lavoro carcerario, cioè all'interno.

 

Quanto può essere determinante il ruolo del direttore del carcere nell'essere motore del reinserimento sociale dei detenuti?

Insieme agli operatori dell'area educativa, agli agenti, ai diversi soggetti che a vario titolo lavorano, l'obiettivo è creare le migliori condizioni di permanenza per chi deve espiare una pena, ma anche facilitare - laddove possibile e opportuno - ogni via per far riconquistare ai detenuti una vita piena. Il direttore del carcere, per misure come l'art. 21 o altri benefici, ha un ruolo immediato e incisivo. Negli ultimi tempi si riscontra, è vero, un atteggiamento più prudenziale da parte della magistratura di sorveglianza, un irrigidimento, forse, nella concessione di benefici. Probabilmente questo è una reazione a taluni casi in cui si è riscontrata inconsistente validità delle richieste dei detenuti. Il carcere a volte fa veramente di tutto, ma non è solo il carcere a essere attore determinante. C'è poi una questione numerica e di sostenibilità del sistema penitenziario: troppa gente entra in carcere. Si dovrebbero escogitare soluzioni creative e alternative.

 

Secondo il XVI Rapporto Antigone, prima dell'esplosione della pandemia da Covid, il sistema penitenziario vedeva impiegati a livello nazionale 37900 poliziotti, 770 educatori, 220 mediatori, 17000 volontari - Su 54372 detenuti al gennaio 2022, quelli al 41bis erano 759 mentre i detenuti con un residuo di pena inferiore ai 3 anni potenzialmente ammissibili dunque a una misura alternativa alla detenzione, e quindi in egual modo potenzialmente poco pericolosi, erano 19040 (XVIII Rapporto Antigone): ciò comporta il problema delle limitazioni ai detenuti in maniera generalizzata, per esempio i contatti telefonici ridotti a una telefonata a settimana per tutti, indipendentemente dal tipo di reato, detenzione e durata della pena residua. Insomma, sia con rispetto alla distribuzione delle risorse operative (polizia penitenziaria, funzionari giuridico pedagogici, mediatori, psicologi, etc.) sia con riferimento al tipo di custodia da adottare, si ragiona applicando a tutti un modello che in realtà è necessario solo per pochissimi. E che vedrebbe un probabile miglior risultato nell'espansione mirata delle risorse umane.


Precisamente, non è una questione di denaro, ma di come le risorse vengono impiegate. Per quanto riguarda Monza, sto cercando di ottenere che la pianta organica sia coperta: per ciò che concerne l'area educativa, che è determinante nell'attivazione di tutti i percorsi individuali di rieducazione, reinserimento e valutazione dei detenuti, su otto in pianta organica mancano due figure. Però si tratta dell'organico previsto per la normale capienza di poco superiore ai 400 detenuti, mentre in questi mesi siamo stabilmente intorno a 700 persone ristrette. Lo stesso discorso vale conseguentemente anche per la polizia penitenziaria. Tornando sul tema importantissimo del lavoro, così per le attività rieducative, culturali, di studio e formative, ribadisco che la via giusta è puntare su attività che si conciliano con l'utenza carceraria. Bisogna far funzionare l'esistente: penso per esempio alle serre e all'orto, ma anche alla falegnameria, che attualmente è principalmente destinata alla formazione in cooperazione con l'Istituto Meroni di Lissone, ma che ha le potenzialità per far di più, se si trovasse un partner esterno, un'azienda che volesse attivarsi. Occorrono persone che abbiano in testa un'idea. Noi siamo disponibili.

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