AFFETTIVITA’ IN CARCERE di E. N.

 



 

Con la sentenza della Corte costituzionale n. 10 del 2024 ai detenuti viene sancito il diritto a colloqui intimi con le o i partner della loro vita. Si tratta di una pronuncia spartiacque per il nitore con cui afferma il valore relazionale del principio di risocializzazione e il senso del limite che i diritti inviolabili impongono a qualsivoglia esigenza punitiva: un balzo avanti dell’Italia, che si avvicina ai 31 Paesi europei che già riconoscono il diritto alla libera esplicazione dell’affettività intramuraria. La Corte costituzionale dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 18 della legge 26 luglio 1975, n. 354, la legge base sull’ordinamento penitenziario, nella parte in cui non prevede che la persona detenuta possa essere ammessa a svolgere i colloqui con il coniuge, la parte dell’unione civile o la persona con lei stabilmente convivente, senza il controllo a vista del personale di custodia, quando, tenuto conto del comportamento della persona detenuta in carcere, non ostino ragioni di sicurezza o esigenze di mantenimento dell’ordine e della disciplina, né, riguardo all’imputato, ragioni giudiziarie. Per utilizzare le parole del giudice remittente, la pronuncia dell’Alta Corte configura e dichiara legittima “la possibilità di utilizzare il tempo del colloquio con il/la partner per rapporti intimi anche di tipo sessuale”.

Era stato il magistrato di sorveglianza di Spoleto a sollevare la questione. In apertura del suo provvedimento il giudice riportava precisamente i contorni della questione: il detenuto “si lamenta delle modalità con le quali l’istituto penitenziario gli consente di svolgere i previsti colloqui visivi con i familiari, tra i quali la figlia minore e la compagna. Segnatamente, nel reclamo-istanza ci si diffonde sulle conseguenze negative che l’assenza di intimità con la compagna sta avendo sul mantenimento del suo rapporto di coppia, cui tiene particolarmente e al quale considera legato il proprio futuro reinserimento sociale”. Poche righe in cui c’è tutto: la prospettiva della persona detenuta, costretta a subire l’amputazione di una dimensione essenziale della personalità; la mortificazione del rapporto di coppia, ossia quella cellula elementare di relazionalità da cui dovrebbe germinare il reinserimento sociale; infine, la punizione di chi non ha commesso il reato, vale a dire la partner (nel caso, era la compagna del detenuto) costretta a subire le conseguenze di una responsabilità penale altrui. Su questo il magistrato di sorveglianza aveva dunque costruito la questione di legittimità del terzo comma dell’art. 18 ord. penit., sollevata in riferimento agli artt. 2, 3, 13, primo e quarto comma, 27, terzo comma, 29, 30, 31, 32 e 117, primo comma della Costituzione, quest’ultimo in relazione agli artt. 3 e 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo: in un ambiente di per sé psicopatogeno come il carcere, la deprivazione gratuita di una sfera essenziale della personalità, quale è quella dell’affettività inclusa la sessualità, aumenta il pericolo di patologie psichiche.

Il conflitto messo in luce dal giudice, poi, è soprattutto con i principi di umanità e finalismo rieducativo della pena, patrocinati dall’art. 27, terzo comma, Cost. Invece di irrobustire il rapporto di coppia o familiare, nucleo fondamentale di ogni relazione sociale, il divieto fa correre al detenuto il rischio di un futuro di maggior solitudine e di spiccata insicurezza personale, correlata alla perdita del proprio ruolo naturale all’interno della coppia. Insomma, da un lato il carcere promette risocializzazione, dall’altro pratica desocializzazione.

Del resto, pur nell’inerzia sostanziale del legislatore nazionale, alcuni passi avanti erano stati fatti: i commi 20 e 38 dell’art. 1 della legge 76 del 2016 hanno parificato al coniuge, nei casi previsti dall’ordinamento penitenziario, sia il convivente di fatto sia la parte dell’unione civile tra persone dello stesso sesso. Sul versante organizzativo e logistico, viceversa, una nuova formulazione dell’art. 18 O.P. si era già arricchita di una disposizione nuova sulla conformazione più idonea dei locali riservati ai colloqui. Dalle norme sul contesto penitenziario minorile, inoltre, sono ricavabili utili parametri organizzativi. L’accesso al beneficio dei permessi premio, che generalmente vengono usati come “surrogato” per coltivare occasionalmente l’affettività familiare e i rapporti di coppia, è di fatto discriminatorio, precisa la Corte, in quanto è precluso non solo a chi non ha il requisito della regolarità della condotta e/o ha invece quello della pericolosità sociale, ma anche a coloro i quali non hanno espiato le quote di pena previste e, in via assoluta, ai detenuti in attesa di giudizio. Già nel 2012, con la sentenza numero 301, la Corte costituzionale aveva affrontato lo stesso tema sollecitando un intervento del legislatore, però il Parlamento e i governi che si sono succeduti da allora non han fatto nulla.

I giudici costituzionali affrontano il merito della questione in modo frontale e senza compromessi: “lo stato di detenzione può incidere sui termini e sulle modalità di esercizio” della libertà di vivere pienamente il sentimento di affetto, “ma non può annullarla in radice, con una previsione astratta e generalizzata, insensibile alle condizioni individuali della persona detenuta e alle specifiche prospettive del suo rientro in società”. L’art. 18, terzo comma, dell’ordinamento penitenziario, nell’imporre il controllo a vista dei colloqui senza eccezioni – una vigilanza che “restringe lo spazio di espressione dell’affettività, per la naturale intimità che questa presuppone, in ogni sua manifestazione, non necessariamente sessuale” – scolpisce una prescrizione assoluta che la espone “a un giudizio di irragionevolezza per difetto di proporzionalità”.

La Corte, nell’accertare la fondatezza della questione, ha inteso integrare la legge con un principio al quale dovranno conformarsi il legislatore e il giudice nella sua decisione concreta. Questa sentenza viene per l’appunto definita dai giuristi “additiva di principio”: essa può e deve trovare applicazione a partire da subito e tutti coloro che lavorano attorno al penitenziario, nella propria sfera di competenza, devono lavorare per renderne possibile l’esecuzione.

L’Italia si allinea - almeno idealmente, ma anche operativamente, con la previsione di estensione dell’effettività della pronuncia costituzionale ai casi individuali che via via si presenteranno all’attenzione dei magistrati di sorveglianza - al più avanzato status dei Paesi europei: solo per citare alcuni esempi, a settanta chilometri a sud di Bastia, in Corsica, in mezzo a oltre millesettecento ettari di pineta, frutteti, boschi, si trova il centro di detenzione di Casabianda, dove non ci sono sbarre né torri di controllo, i detenuti sono tutti impegnati in qualche genere di attività – pascolano ovini e suini, coltivano i campi, producono olio, tagliano legna nei boschi – e possono ricevere le loro compagne diverse volte nel corso dell’anno. Sull’isola di Palawan, a Iwahig, nelle Filippine, c’è una fattoria penale che funziona come un’azienda agricola, nella quale i detenuti possono lavorare e vivere in un alloggio con la propria famiglia. All’ingresso un cartello dà il benvenuto: “Welcome”. Si chiama diritto all’affettività e alla sessualità in albanese, austriaco, francese, norvegese… Ma non in italiano.

Le associazioni che lavorano con il carcere Due Palazzi di Padova hanno annunciato che partirà una prima sperimentazione italiana per permettere incontri tra detenuti e i loro partner in privato, senza controlli. Sulla questione è stato sentito il 21 febbraio dalla Commissione Giustizia alla Camera anche Giovanni Russo, a capo del DAP, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Russo ha detto che sull’affettività «intendiamo dare non piena ma, di più, una avanzata risposta all’ordine specifico che la Corte Costituzionale ha dato, in attesa delle valutazioni del legislatore, all’amministrazione penitenziaria», e ha aggiunto che, vista la situazione, devono essere resi possibili colloqui privi di controllo. «Io li chiamerei così, poi all’espressione sull’affettività naturalmente ci si arriva però non è quello l’obiettivo principale».

Se si chiede, come abbiamo avuto occasione di fare, ai diretti interessati, cioè i detenuti, qual è il sentiment rispetto alla questione su cui si è pronunciata la Corte, le risposte sono variegate: c’è chi accoglie favorevolmente la possibilità di godere di momenti di intimità affettiva con la propria partner, anche sessuale, e chi invece è assolutamente non interessato, anzi contrario. C’è soprattutto la preoccupazione di non veder ridicolizzato, svilito o addirittura offesa la necessità fisiologica della sessualità e denigrato il bisogno psicologico all’affettività intima di coppia e familiare. Servono luoghi appropriati, nella migliore delle ipotesi unità abitative attrezzate dove sia possibile anche cucinare e consumare del cibo, riproducendo ambienti di vita domestica. In questo senso alcune prassi sperimentali sono realizzate nel carcere milanese di Opera. Gli incontri devono potersi tenere in modo non sporadico, perché l’obiettivo è la conservazione di relazioni stabili. Ci sono poi detenuti che, comprensibilmente, pongono l’accento sulla questione di chi non ha una relazione: quale previsione si potrebbe fare per costoro? Vero è che la Corte ha posto uno spartiacque tra prima e dopo, conseguendo un risultato che sarà negli annali.

La sentenza entra in rotta di collisione diretta con il principio per cui la pena debba essere, oltre che privazione della libertà personale, incapacitazione dell’essere umano, amputazione del suo corpo e dei suoi desideri. In questo senso, anche per la limpidezza della motivazione, si tratta di una pronuncia che esprime un reale controcanto ai quadri mentali dominanti, nell’opinione pubblica generale e anche in quella specializzata. Nel collegare direttamente l’esercizio dell’affettività con il finalismo rieducativo della pena, la sentenza scolpisce il valore indiscutibilmente relazionale della risocializzazione. Un’opera tesa a favorirla, dunque, non può cominciare a sottrarre i due baluardi fondamentali della relazione: affettività e sessualità. Ricomporli, restituirli ai detenuti, sarà proficuo per la società intera, che dopo il tempo della pena potrà accogliere persone integre e più responsabili.

Commenti

Post popolari in questo blog

ADOTTA UN VENTILATORE

Benvenuti su Oltre i Confini - Voci dal carcere

Amnistia ai detenuti, l'appello del Papa ai governi