LE NUOVE GENERAZIONI IN CARCERE: IL TEMA DELLA CONVIVENZA di M. C.

 

 Messa di Pasqua celebrata dal Vescovo nel carcere minorile – Chiesa di  Cagliari

Intervista

"Mi chiamo Mario S. Da marzo di quest'anno entrerò nei 70 anni. Ho passato un lungo periodo in carcere, dal 1983 al 2018. Mi ricordo una popolazione detenuta differente, basata totalmente o quasi su altri tipi di reati: associazioni, traffici, omicidi e reati legati alle bische clandestine. Oggi che sono detenuto a Monza si vede e si vive una realtà totalmente differente, un cambio epocale dato da diversi fattori: tutte le generazioni nate dagli anni '80 ai '90, ragazzi abbandonati alla loro sorte da famiglie distratte che creano tossici, alcolisti con problemi esistenziali, mancanza di senso di responsabilità, senza regole e con l'idea che tutto è dovuto.

Forse è un po' la mancanza di cultura della memoria storica di quel che c'era prima e ignoranza di come si è arrivati agli anni del benessere diffuso

Esattamente, l'idea che tutto è dovuto, la dipendenza dai genitori e l'uso di droghe sintetiche e farmaci che rovinano completamente la personalità dell'individuo. Da ciò nasce la nuova generazione di detenuti che vedo qui adesso. Sempre più spesso ci sono detenuti senza il senso di responsabilità e col vuoto dentro la testa, senza educazione, senza senso del rispetto degli altri. Un tempo eravamo criminali sì ma con il senso del decoro e della decenza. Il problema non è la persona, che sicuramente va trattata e aiutata, ma le dinamiche che, frutto di questo onnivoro senso di superficialità, si generano in cella e sono facilmente intuibili: difficoltà a convivere, a collaborare per le semplici pulizie, cucina, operazioni di banale quotidianità. Perché la cella è come la casa e i  problemi seguono la persona.

Molti soggetti fragili, detenuti "non responsabili", assumono terapie; qual è l'effetto?

I farmaci sono forse troppi e troppo forti, e probabilmente di troppo facile accesso. Non aiutano una guarigione e il recupero terapeutico della persona; quello dell'uso di terapie farmacologiche parapsicologiche o psichiatriche in carcere è un problema ormai molto diffuso e poco discusso, nei termini di una discussione costruttiva.

Visto con gli occhi di chi ha attraversato in carcere molta parte della propria vita, quali soluzioni sarebbero consigliabili?

Ci vorrebbe più controllo, la terapia non è la soluzione, l'intervento deve essere riabilitativo e costruttivo, umanizzante. E chi accoglie - parlo di noi, di noi altri detenuti - queste persone con problematiche non indifferenti, andrebbe ascoltato e aiutato, sostenuto. Lo può fare, discutendo e approfondendo i problemi, direttamente nella cella un ente a questo preposto, il carcere stesso. I detenuti sono persone, cittadini, pagano un pegno ma hanno diritti. Il benessere dei detenuti passa necessariamente per la preparazione di percorsi di condivisione e convivenza, avendo cura de soggetti più fragili ma anche non dimenticando chi, nel silenzio e nelle ristrettezze di una cella, se ne prende cura.


 

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