MARTA CARTABIA: nell'articolo 27 non c'è la parola CARCERE di Giancarlo D'Adda

 


Nell’articolo 27 della Costituzione italiana la parola “carcere” non c’è. Lo si scopre leggendo l’intervista a Marta Cartabia, - presidente emerita della Corte Costituzionale (prima donna), ministra della Giustizia con il governo Draghi, oggi professoressa di Diritto costituzionale alla Bocconi di Milano - pubblicata sull’inserto Buone notizie del Corriere della sera dell’8 maggio 2024. Infatti, dice l’ex ministra: “Si parla solo di pena, senza specificare. Anzi, sempre per stare al testo: ‘e pene’, al plurale. Il che significa certamente da parte dei nostri Costituenti la consapevolezza di un tema ineludibile, quello delle sanzioni per i comportamenti portatori di un disvalore. Ma indica anche che il ‘come’ di tali sanzioni è tutto da immaginare. E noi dobbiamo stare attenti a non sovrapporre l’esistenza innegabile di una tradizione carceraria al fatto che tale tradizione, diciamo pure abitudine, non si possa cambiare”. 

Qualcosa infatti è cambiata dal 1948, l’anno in cui è stata promulgata la nostra Carta fondamentale. Innanzitutto nel 2007 (!) c’è stata l’abolizione completa della pena di morte: fino ad allora consentiva che fosse regolata dalle leggi militari, in tempo di guerra. Poi sono state introdotte misure alternative alla detenzione decise dal magistrato di sorveglianza a chi è in carcere e le pene sostitutive decise dal giudice a conclusione del processo, e il colpevole non passa dal carcere: una bella differenza rispetto a prima. “La messa alla prova – dice Cartabia - può essere assegnata addirittura prima della sentenza, sospende il processo e se il percorso si conclude bene evita anche l’iscrizione nel casellario. Lo scopo ultimo è quello di uscire dal tunnel mentale che prevede il carcere come unico sbocco della sanzione penale. Idea che, come abbiamo visto, nella Costituzione non c’è”. Infatti le persone fuori dal carcere con misure o pene alternative sono oltre 70mila rispetto a circa 65mila, se non più, in carcere. “Numeri tremendi – chiosa la professoressa -. A maggior ragione se si pensa che allo stesso tempo i reati più gravi sono diminuiti in modo verticale. Mentre il sovraffollamento è tornato ai livelli del 2012, quando con la famosa sentenza Torregiani l’Italia fu condannata dall’Europa per tortura”. 

 

Ha ragione quindi il direttore di San Vittore, Giacinto Siciliano, che recentemente ha definito il sistema carcerario italiano: “una discarica sociale in cui finiscono perlopiù persone con problemi di dipendenza dalla droga o psichiatrici. Che in stato di detenzione potranno solo peggiorare. In entrambi i casi si sconta la mancanza di strutture idonee, fuori dal carcere, in cui ricevere le cure di cui avrebbero bisogno”. A chi ha commesso un reato bisogna dare una seconda possibilità, una prospettiva nuova alla sua vita.

Come uscirne? “La prima priorità – afferma Marta Cartabia - è interrogarsi sulle radici profonde della criminalità. E se, come suggerisce il direttore di San Vittore, la maggior parte dei detenuti vive situazioni di disagio sociale, cioè emarginazione, dipendenze, problemi psichiatrici, allora forse bisogna investire in strutture, istituzioni, comunità esterne al carcere che si prendano cura di quel disagio, in modo da prevenire la commissione di reati. Queste strutture mancano”. 

 

In carcere arrivano persone diverse con storie diverse, con culture diverse. Occorre che chi si occupa di loro deve essere preparato. La formazione delle guardie e degli educatori deve essere una priorità. Una formazione continua, visto che la popolazione carceraria varia continuamente. C’è poi il tema della mancanza di agenti carcerari, delle strutture, alcune fatiscenti, “Pensi – conclude la prima donna che è entrata a far parte della Corte costituzionale – che, quando sono arrivata al Ministero, ho scoperto con stupore che non si facevano concorsi per le direzioni delle carceri da più di 25 anni. Ma oltre ai concorsi servono corsi, continui”. 

 

Una società senza, o con meno carceri, come da anni molti esperti sostengono, e con più misure alternative, sarebbe certo più sicura. Lo dimostrano le cifre sulla recidiva, quando un soggetto, dopo essere stato in carcere, ci ritorna. Nel carcere di Bollate, dove si svolgono molte attività educative, di lavoro, anche esterno, la recidiva è del 30 per cento, altrove è l’esatto contrario. Ed è d’accordo Cartabia quando dice: “Parlano i numeri: un detenuto che ha fatto un percorso di reinserimento è meno incline alla recidiva, un ragazzo che in carcere ha subito violenze ne uscirà più violento. Basta vedere le statistiche. Se non per convinzione, facciamolo per convenienza: stare con la Costituzione vale sempre la pena”.

 

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